di Manuel Barbera (b.manuel@inrete.it).
La famiglia sinotibetana è, dopo l'indoeuropea, quella con più
parlanti al mondo, e con approssimativamente lo stesso numero di lingue (secondo
i numeri di riferimento dell'Éthnologue, sempre piuttosto abbondanti, 439
l'indoeuropeo
e 449 il sinotibetano),
ma con importanti differenze. In primo luogo (1)
laddove nella prima il peso demografico era distribuito tra tre "grandi" lingue
(inglese, spagnolo e hindi) con molte consistenti "minori", nella seconda poggia
quasi esclusivamente su un'unica lingua, il cinese, da solo oltre il bilione di
parlanti. Inoltre (2) se il baricentro dell'indoeuropea
è in Europa (spingendosi ad Est in India, Himalaya e Xinjiang), quello della
sinotibetana è invece in Oriente (spingendosi a Sud in Indocina e Birmania ed a
Ovest in Nepal ed India). Il numero e la distribuzione (3)
stessa delle lingue coinvolte è anche profondamente diverso: in indoeuropeo abbiamo
prevalentemente gruppi linguistici con poche lingue, spesso ben definite e con versioni
standard (l'eccezione principale è il gruppo iranico ed in parte quello ario); in
sinotibetano, con l'eccezione di relativamente poche lingue scritte e definite,
sia pure fondamentali, come il cinese, il tibetano ed il birmano, abbiamo centinaia
di lingue minuscole, poco studiate e talvolta mal descritte.
Lo stadio della classificazione e della ricostruzione è pertanto
poco avanzato rispetto a famiglie come l'indoeuropea e l'uralica, e la conoscenza
che abbiamo è spesso molto variabile a seconda dei gruppi (si va dalla eccellente
del cinese alla pessima od assente per certi gruppi tibeto-birmani): la realtà
genealogica della famiglia stessa, pur sicura, non è realmente "dimostrata", in quanto un
"proto-sinotibetano" che tenga conto (come ad esempio l'indoeuropeo) di tutte
le lingue note di fatto non esiste ancora, né tantomeno tutti i sotto-raggruppamenti
e le loro posizioni sono certi.
Più nello specifico, le ragioni di questo strano "ritardo" della linguistica storica
sinotibetana è dovuto a varie ragioni, che, seguendo l'efficace sommario che James
A. Matisoff, uno dei principali protagonisti di questa disciplina, faceva nel 1999
(cfr. James A. Matisoff, On the Uselessness of Glottochronology for the Subgrouping
of Tibeto-Burman, in Time Depth in Historical Linguistics, edited by
Colin Renfrew, April McMahon and Larry Trask, Cambridge (EN), The McDonald Institute
for Archaeological Research, 2000 "Papers in the Pehistory of Languages", vol. 2 pp.
333-371, pp. 333-4) si possono così riassumere:
(1) l'insufficenza dei dati, specie per le lingue nel cuore
del tibeto-birmano (Birmania, India NE ecc.);
(2) la scarsità di lingue tibeto-birmane con attestazioni antiche
(le eccezioni sono solo il tibetano, il birmano ed il tanguto);
(3) il cinese, fondamentale anche per la sua posizione
filogenetica (la sua testimonianza pressoché da sola "conta" quanto quella di tutte
le 300 lingue tibeto-birmane!), è però attestato in una scrittura logografica
che crea molte difficoltà al linguista storico;
(4) la diversificazione grammaticale è enorme, forse
anche per le forti influenze esercitate ad ovest dalle lingue indoarie (la cosiddetta
indosfera, => lingue non tonali e suffissanti) e ad est dal cinese (sinosfera,
=> lingue monosillabiche, tonali, con poca morfologia e molti omofoni), tanto da
rendere impossibile (a differenza dell'indoeuropeo!) la ricostruzione di proto-morfemi
comuni a tutta la famiglia;
(5) attraverso tutta la famiglia i morfemi sono sempre monosillabici,
riducendo drasticamente il materiale utile per la comparazione;
(6) anche la morfologia composizionale e le ricche "famiglie"
di parole creano molti problemi al riconoscimento delle unità da mettere nella comparazione.
In questa situazione, non stupirà che, anche se il primo riconoscimento, da parte dell'orientalista Julius Heinrich Klaproth (1783–1835), che tibetano, birmano e cinese formassero una famiglia gealogica risale al 1823 (cfr. Julius Klaproth, Asia Polyglotta, Paris, bei A. Schubart, 1823), la prima trattazione globale della famiglia sia stata tentata solo negli anni Quaranta da Paul Benedict (1912-1997); opera che, peraltro, giacerà manoscritta e dimenticata fino al 1968, quando James Matisoff la riscoprì e curò poi per la pubblicazione: Paul K. Benedict, Sino-Tibetan. A Conspectus, edited by James A. Matisoff, Cambridge, at the University Press, 1972. In questa pietra miliare della ricostruzione del sinotibetano la tassonomia interna del tibetobirmano rimane ancora non affrontata.
[tav. 1].
Il primo tentativo
di sistemazione del sinotibetano: Paul K. Benedict, Sino-Tibetan. A Conspectus,
edited by James A. Matisoff, Cambridge, at the University Press, 1972; da p. 6.
Si noti la posizione alta nello Stammbaum accordata al karen, e la rinuncia
ad ulteriormente articolare il tibetobirmano, accontentandosi di una rappresentazione
geografica dei vari gruppi primari intorno al cuore della costellazione, individuato
nel kachin (poi jingpho).
Un importante tentativo di riassestamento dopo il Conspectus
di Benedict è stato quello negli anni Settanta di Robert Shafer, che distingueva
all'interno del tibetobirmano (inarticolato in Benedict) tre famiglie indipendenti,
bodico barico e birmano, ma che pure lui affiliava al sinotibetano anche daico e
myao-yao, cosa da respingere.
[tav. 2].
Carta linguistica
delle famiglie linguistiche facenti parte del gruppo sinotibetano secondo Shafer:
sinitico, tibetobirmano (tibetano bodico, barico, birmano) e karenico. Le famiglie
daica e myao-yao vanno invece considerate indipendenti.
Rimaneggiato a partire da Robert Shafer, Introduction to Sino-Tibetan,
Wiesbaden, Otto Harrassowitz, 1974, p. xvj.
La più recente sistemazione è tuttavia, oggi, quella dell'allievo
(ed editore) di Benedict, James A. Matisoff, che nel fondamentale Handbook of
Proto-Tibeto-Burman, Berkeley - Los Angeles - London, University of California
Press, 2003 "University of California Publications in Linguistics" 135 (ed in numerosi
articoli, tra cui seganalo come particolarmente utile e riassuntivo James A. Matisoff,
On the Uselessness of Glottochronology for the Subgrouping of Tibeto-Burman,
in Time Depth in Historical Linguistics, edited by Colin Renfrew, April McMahon
and Larry Trask, Cambridge (EN), The McDonald Institute for Archaeological Research,
2000 "Papers in the Pehistory of Languages", vol. 2 pp. 333-371), proponeva
lo schema attualmente più diffuso e "standard", tanto da figurare pari pari nella
homepage della
42nd International Conference on Sino-Tibetan Languages and Linguistics 2-4
November 2009, Payap University (Thailandia), e da essere quello correntemente
impiegato nell'importante progetto in corso presso l'Università di Berkeley del STEDD,
il Sino-Tibetan Ethymological dictionary and Thesaurus. Ora, all'interno del tibetobirmano,
restano solo due gruppi geografici, ed i rimanenti sono genealogicamente assestati,
così come sono introdotti alcuni gruppi di lingue ai tempi del Conspectus
sconosciute, come il quiang, o quasi come il bái (minchia); sono esplicitamente
e saggiamente negate, inoltre, tutte le altre comparazioni esterne. In generale, è
«an improvement in certain respects, though its apparent neatness conceals many problems
that have been temporarily sept under the rug» (James A. Matisoff, On the Uselessness of Glottochronology for the Subgrouping
of Tibeto-Burman, in Time Depth in Historical Linguistics, edited by
Colin Renfrew, April McMahon and Larry Trask, Cambridge (EN), The McDonald Institute
for Archaeological Research, 2000 "Papers in the Pehistory of Languages", vol. 2 pp.
333-371, p. 347).
[tav. 3].
L'albero genealogico di
Matisoff per il protosinotibetano (cfr. Matisoff 2003 cit. p. 5), che anche recentemente
rappresenta la soluzione di più largo consenso, tanto da apparire sulla homepage
del 42o congresso dei sinotibetanisti del 2009, che riproduco con l'unica modifica dell'indicazione
dei nomi tradizionali (in violetto) di alcuni raggruppamenti. Si ricordi che, per esplicita ammissione
dello stesso Matisoff, il "kamarupan" e l' "himalayish" sono indicazioni puramente geografiche
di una moltitudine di lingue per le quali spesso non esiste ancora per tutte una collocazione
genealogica sicura e dimostrata (per mancanza di descrizioni scientifiche, ecc.).
Pure, non manca anche chi "rema
contro" riportando l'agnosticismo classificatorio da alcune aree del tibetobirmano
al sinotibetano tutto, come se ogni ricostruzione filogenetica fosse impossibile:
il modello delle cosiddette fallen leaves lanciato da George Van Driem nel 2005
si ritira in una rappresentazione di rapporti puramente geografici (e curiosamente
a tanto scetticismo interno si associa un altrettanto lassismo esterno, con la accettazione
di macrocomparazioni ben altrimenti azzardate dei sottoraggruppamenti di Matisoff).
Sembra un po', in sostanza, ripetersi oggi nella grammatica storica del sinotibetano quel
che per l'indoeuropeo avvenne alla fine dell'Ottocento con il rifiuto della Stammbaumtheorie:
anche il "modello ad onde"
o Wellentheorie di Schmidt, costituiva una reazione viscerale ma anche un po'
rinunciataria alla rappresentazione filogenetica (ne guadagnano i particolari, ma
si perdono le grandi linee storiche); solo che là venivano rappresentate relazioni (isoglosse)
tra fatti comunque linguistici, qui invece l'abdicazione della linguistica è totale e
rimangono solo relazioni geografiche.
[tav. 4].
.Il modello delle
cosiddette fallen leaves di George Van Driem (cfr. George Van Driem,
To which Language Family does Chinese Belong, or What's in a Name?, in
Past Human Migrations in East Asia. Matching Archaeology, Linguistics and Genetics,
edited by Alicia Sanchez-Mazas, Roger Blench, Malcom D. Ross, Ilia Peiros and Marie Lin,
London - New York, Routledge, 2008 "Routledge Studies in the Early History of Asia" 5,
pp. 219-253).
Roger Blench così commenta questa operazione: «Van Driem's model presents
no assumption at all about subgrouping but simply maps already well-recognized groups.
This is an entirely geographical model, which places generally agreed subgroups in
proximity, with the area of the ellipse representing their size, but advances no
hypothesis about their ultimate relationships. Whether this represents progress is
debatable, but the 'fallen leaves' model has the virtue of treating all branches of
Sino-Tibetan as of equal status and requiring that their position be ultimately
defined. Van Driem would argue that this is a fair representation of the state of
our knowledge» (Roger Blench, Stratification in the Peopling of China. How Far does
the Linguistic Evidence Match Genetics and Archaeology?, in Past Human Migrations
in East Asia. Matching Archaeology, Linguistics and Genetics, edited by Alicia
Sanchez-Mazas, Roger Blench, Malcom D. Ross, Ilia Peiros and Marie Lin, London -
New York, Routledge, 2008 "Routledge Studies in the Early History of Asia" 5, pp. 105-132.
Tavola riprodotta da van Driem 2009 cit. p. 122 e Blench 2009 cit. p. 108.
In realtà «it is hard not to gain the impression that a state
of academic warfare exists between the various camps. Languages given prominence
by one side are ignored by the other» (Blench 2009 cit. p. 108). «Moreover, the
exclusion by Matisoff of many small branches of Sino-Tibetan and the branching of
others from a single node does not suggest this is a fully worked-out theory»
(ibidem, p. 108). Una classificazione provvisoria, ovviamente basata su Matisoff 2003,
che smussi in parte questi difetti, solo rinunciando ai "remnant languages" ancora
non sufficientemente studiati (che nel futuro non mancheranno di riservare sorprese,
come è avvenuto per il minchia) potrebbe essere la seguente:
[tav. 5].
L'albero filogenetico
del sinotibetano per quello che a mio parere attualmente sembra effetivamente sapersi, al di là
delle questioni di scuole e tradizioni diverse: la struttura generale è quella di Matisoff,
ma accetto la proposta di Starostin sulla posizione del minchia, e mantengo l'idea
della relativa indipendenza del karen di Benedict. In nero sono i rapporti genealogici,
in arancio quelli diffusionali.
Non c'è sempre stato neppure un vero consenso su quali famiglie
vadano comprese nel sinotibetano, un po' per la tendenza "ingenua" (frequente
soprattutto nell'Ottocento e nei primi del Novecento, quando il numero di lingue
ancora non studiate era enorme) a considerare affine al cinese per principio
qualsiasi lingua tonale dell'Asia; un po' oggi per la tendenza dei lumpers
alla megalocomparazione ed alla creazione di sempre nuovi super-super-stock, sganciati
da ogni senso della realtà (si è fin avanzata una connessione con le lingue maya
del Messico e Guatemala!). Tra queste comparazioni esterne si è spesso sostenuta
l'affiliazione anche del thai, con tutta la famiglia daica (così ancora Benedict),
che però già Klaproth scartava a ragione, o delle lingue myao-yao del Sud della Cina,
famiglie entrambe che ormai sappiamo autonome, o che, tutt'al più sembrano più
plausibilmente appartenere ad altri ipotetici raggruppamenti
(cfr. "austrasiatico");
Tra le proposte recenti hanno goduto di qualche favore la connessione caucasica
(proposta da Sergej Starostin) e quella austronesiana (proposta da Laurent Sagart,
ed accarezzata anche da George van Driem) spesso con accrezioni daiche o mon-khmer:
nulla di dimostrato (né, credo, dimostrabile).
Caratteristiche tipologiche generali per tutta la famiglia, stante la forte differenziazione grammaticale cui avevamo accennato sono difficili da dare. A grandi linee nella indosfera abbiamo lingue non tonali, polisillabiche e suffissanti, mentre nella sinosfera abbiamo lingue monosillabiche, tonali, con scarsa morfologia ed alto tasso di omofoni; alcuni prefissi nsono inoltre ricostruibili in entrambi i rami. L'ordine basico delle parole è SOV in tutto il tibetobirmano proprio, ma SVO in karen e sinitico (baico compreso). La protolingua sembra, peraltro, non essere stata né tonale (i tre sistemi che si ricostruiscono per i tre rami non paiono collegabili, e sembrano piuttosto innovazioni indipendenti) né completamente monosillabica ed isolante (sono ricostruibili un certo numero di prefissi e di suffissi).
Tanto la famiglia tibetobirmana propria è vasta e dispersa su un amplissimo
territorio, tanto le lingue karen costituiscono un gruppo relativamente compatto e
circoscritto ad un'unica zona, tra la Birmania meridionale e la Thailandia occidentale.
Sono tutte parlate da tribù abbastanza primitive, per alcune delle quali è stata
introdotta solo di recente una scrittura. Le lingue maggiori della famiglia (che ne
conta tra la dozzina e la ventina, a seconda delle scelte tra lingua e dialetto) sono
il pwo, a cavallo tra Birmania (ufficialmente Myanmar), lo sghaw,
nel delta dell'Irrawaddy (cioè Ayeyawaddy) ed il kayah (o karen rosso)
nell'omonimo stato della Birmania (ed in campi-profughi della Thailandia); le prime
due lingue (sghaw e pwo) sono praticamente le uniche due già sistematicamente usate da Benedict.
Oggi la situazione è molto progredita, ma alcune varietà non sono ancora sufficientemente
studiate e descritte.
[tav. 6].
Classificazione delle lingue
karen con dati basati su Éthnologue.
Il riconoscimento di una ventina di lingue è calcolo abbondante, stile Éthnologue, che
si basa soprattutto sui test di intercomprensione; riassorbendo alcuni dialetti si può
scendere sulla dozzina) Le lingue sono in blu, ed i loro nomi alternativi in verde;
in rosa i codici-éthnologue, ed in turchese le eventuali scritture (BR=birmana, LI = li,
LT=latinica, TH=daica); in arancio, infine, il numero di lingue per raggruppamento.
Tra i molti fattori di interesse di queste lingue, non ultimo
sono le modalità di introduzione della scrittura: la prima fase è data dall'opera
dei missionari, che di solito hanno usato o la birmanica
(quindi fondata sulla brahmi),
appena leggermente modificata, o la latinica;
la seconda è quella che vede l'ingresso
degli Stati, con birmanica in Myanmar e daica in Thailandia (anche questa fondata
sulla brahmi); la terza vede l'appropriazione da parte delle comunità indigene, che hanno
a volte preferito l'una o l'altra: gli sghau hanno preferito la birmanica alla latinica
dapprima usata, ma ormai obsoleta; i pwo oscillano ancora tra thaica e birmanica,
con preferenza per la prima; i kayah, invece, hanno invece adottato una nuova scrittura,
la cosiddetta li o kayah li, in opposizione alla precedentemente usata latinica. Questa
scrittura è abbastanza curiosa in quanto, inventata da un certo Htae Bu Phae nel marzo
1962, e poi insegnata sistematicamente soprattutto nei campi-profughi della Thailandia,
è solo "ispirata" dalla brahmi nella forma delle lettere, ma è completamente alfabetica
e non più alfasillabica (cfr., per un colpo d'occhio, la pagina di
Omniglot).
Le lingue karen rappresentano un tipo abbastanza puro di lingua monosillabica, isolante e tonale, ed hanno anche un ordine delle parole SVO diverso dalle altre tibetobirmane (tutte SOV) ma simile al cinese: «Karen syntax in general, however, with the object placed at or near the end of the sentence and with relating elements preceding as well as following, stands close to Chinese and even closer to unrelated Thai, which has perhaps exerced some influence here» (Paul K. Benedict, Sino-Tibetan. A Conspectus, edited by James A. Matisoff, Cambridge, at the University Press, 1972, p. 129). La cosa è rilevante perché, nonostante ciò, le lingue karen sono pressoché le uniche tibetobirmane a non avere avuto nessun contatto col cinese: «the Karens were among the earliest TB peoples to penetrate into insular SE Asia, in the late first millenium aD, and were closely associate with the Mons, with whom they are said to have lived in a master-slaver relationship. This heavy contact with Mon (as well with Tai languages) undoubtely explains the atipical karen SVO word-order» (James A. Matisoff, On the Uselessness of Glottochronology for the Subgrouping of Tibeto-Burman, in Time Depth in Historical Linguistics, edited by Colin Renfrew, April McMahon and Larry Trask, Cambridge (EN), The McDonald Institute for Archaeological Research, 2000 "Papers in the Pehistory of Languages", vol. 2 pp. 333-371, p. 349).
Quanto alla posizione filogenetica, "indipendente" (oggi non tutti sono d'accordo) ma pur sempre all'interno del tibetibirmano (tutti d'accordo), abbiamo già detto. Resta da aggiungere che non solo l'unità della famiglia ma anche la ricostruzione della protolingua era già stata brillantemente risolta, sia pure in base ai non moltissimi materiali disponibili, da André-Georges Haudricourt (1911-1996, geniale ed eclettica figura di ingegnere, naturalista, etnologo e linguista, espertissimo di Sudest asiatico) negli anni '40-50.
È il raggruppamento più vasto e sfrangiato del tibetobirmano,
e comprende numerose famiglie linguistiche dell'India NE (distretti dell'Assam, Manipur,
Nagaland, Arunachal Pradesh, ecc.) e della Birmania W la cui posizione è tuttora incerta; il suo nome,
infatti, dato dal Matisoff, riprende un antico nome sanscrito per parte dell'India NE,
appunto kaamaruupa. È il «center of diversification of the whole TB family.
Nagaland alone, with an area of 6350 square mile [poco meno della provincia di Cuneo],
is home to some 90 TB languages and dialects» (Matisoff 2000 cit., p. 351).
Comprende le tradizionali famiglie kuki-chin con la relata famiglia naga,
la famiglia bodo-garo, da Shafer detta barish (cfr. la
tav. 2 di questo
capitolo), e la abor-miri-dafla, da Shafer detta mirish (cfr. ancora
la tav. 2); «plus a
number of languages that seems to fall outside any of these» (Matisoff 2000 cit., p. 351),
tra cui il manipuri o meitei-lon.
+ Le lingue kuki-chin, assai numerose, della Birmania W e del
Mizoram (India), sono molto geneticamente molto affini tra di loro. In genere non tonali
o con sistemi tonali molto semplici, sono, al contrario (come spesso succede, la
tonogenesi accompagnadosi alla perdita di segmenti fonologici) piuttosto conservative
fonologicamente.
+ Anche le lingue naga del Nagaland e dell' Arunachal Pradesh (India), sicuramente
connesse con le precedenti, sono non o poco tonali e conservano bene (ad esempio)
il consonantismo finale. Sono piuttosto numerose, ma complessivamente
ben studiate e la loro articolazione interna in 5 sottogruppi è abbastanza assestata.
+ La famiglia barica ("bodo-garo"), diffusa nel Meghalaya e Tripura (India)
ha "solo" una quindicina ndi lingue, perlopiù non tonali e conservative.
+ Le lingue miriche ("abor-miri-dafla") dell'Arunachal Pradesh India) sono le più
aberranti rispetto al TB "standard", specie lessicalmente.
La lingua più importante (in quanto scritta ed ufficiale) del raggrupamento
è però una delle molte realtà di posizione filogenetica non chiara cui accennavamo
è il manipuri (, in scripta ufficiale bengali) o,
con autodenominazione meitei-lon (), noto nelle fonti coloniali britanniche come meithiei.
È lingua ufficiale dello stato indiano del Manipur, nel cui territorio
funge anche da principale lingua franca, e dove è usata tanto nell'insegnamento
quanto negli uffici statali. Parlata anche in
Bangladesh e Birmania, è oggi normalmente scritta nella bengali
("nagari orientale" o
"assamese"), ma aveva sviluppato anche una propria canonizzazione della
brahmi, la cosiddetta
meitei mayek (che potete vedere alla seguente pagina di
Omniglot)
Anche le lingue riunite insieme nel gruppo himalayano non formano
una unità genetica ma solo una divisione geografica (e probabilmente una realtà areale),
che comprende i territori di Tibet, Nepal, Bhutan, Sikkim e Himachal Pradesh. Comunque,
«Himalayish has become one of the "grow points" in TB studies» (Matisoff 2000 cit., p. 351.),
cfr. ad es, George van Driem, Languages of the Himalayas: An Ethnolinguistic Handbook
of the Greater Himalayan Region, containing an Introduction to the Symbiotic Theory
of Language, 2 vols., Leiden, Brill, 2001.
Il gruppo più notevole è quello delle lingue tibetane o bodo, che comprende in primo luogo il tibetano e le sue numerose varietà, tra cui il tibetano standard moderno, o tibetano centrale di Lhasa, ed il ladakhi, o tibetano arcaico occidentale, parlato nel Ladakh, una regione del Kashmir indiano. Il tibetano scritto o classico, in particolare, attestato dall'inizio del VII secolo dC, è assai importante culturalmente, in quanto veicolo in tutta l'Asia della religione lamaistica, e linguisticamente, in quanto fonte preziosissima di informazioni per la ricostruzione del TB, dato che è lingua non-tonale e conservativa: «it faithfully preserves all the prefixes set up for PTB, as wells the medials */-r- -l- -y-/ (but not *-w-), and the full array of final consonants imputed to the proto-language, */-p -t -k -m -n -ng -r -l -s/» (Matisoff 2000 cit., p. 350).
[tav. 7].
Il caratteristico sistema fonologico
del ladakhi (tibetano arcaico occidentale, parlato in India, nell'omonina regione
dello stato himalayano del Kashmir), uno delle più importanti varietà tibetane moderne.
Dedotto da Sanyukta Koshal, Ladakhi Grammar, edited by B. G. Misra, Dehli -
Varanasi - Patna, Motilal Banasirdass, 1979, di cui mantengo l'ortografia. Si noti
che: gli ordini sono bilabiale, dentale, alveolare, retroflesso, palatale e velare;
l'allofono di /k/ è una velare anteriorizzata; la serie sonora ha allofoni fricativi;
gli allofoni di laterale e vibrante con il pallino sottoscritto sono delle sorde;
il fonema scritto curiosamente /£/ è una laterale mormorata; gli allofoni vocalici
sono quello che dalle rispettive posizioni si può facilmente dedurre, cioè: anteriore
non arrotondato medio-basso, posteriore arrotondato medio-basso, centrale basso
non arrotondato e posteriore basso non arrotondato. Segno, inoltre, in blu i foni
che possono ricorrere in posizione finale.
Scritto con una scrittura alfasillabica derivata dalla
brahmi indiana, il tibetano classico è testimoniato
a partire dal VIII-IX secolo d.C. La struttura di silaba tibetana essendo ben più
complessa del CV presupposto dagli aksara (yi-ge in tibetano) della brahmi,
gli yige tibetani sono conformemente più complessi, ammettendo come diacritici, oltre alle vocali,
delle ulteriori consonanti anteposte (g, d, b, m e '),
sovrapposte (r, l e s), sottoposte (y, r, l e w),
posposte (g, ñ, d, n, b, m, ', r,
l e s), ed addirittura post-posposte (s e d).
Il canone grafico tibetano è noto in diverse tipizzazioni,
tra cui le principali sono la uchen (correttamente: dbu-can 'con la testa'),
la forma standard usata nella stampa (prima a blocchi di legno, poi a caratteri fusi,
ed oggi a fonts elettronici), e la ume(t) (dbu-med 'senza testa'),
la corsiva usata a mano. La uchen è anche la forma più antica, che si trova nelle prime
attestazioni scritte di tibetano, epigrafiche (dal VII secolo), manoscritte (dal
XI secolo) ed a stampa (dal 1284: «the earliest known specimen of a Tibetan printed
text is one derived from printing blocks that were carved to completion on 16 December
1284 in present day Beijing, under the patronage of the Mongol imperial family» Leonard
W. J. van der Kuijp, The Tibetan Scripts and Derivatives, in The World’s
Writing Systems, edited by Peter T. Daniels and William Bright, New York - Oxford,
Oxford University Press, 1996, Section 40, pp. 431-441, p. 431).
[tav. 8].
Uno dei più famosi e classici
mantra tibetani (variamente interpretato; grosso modo, carattere per carattere,
vale qualcosa come 'generosità, etica, pazienza, diligenza, rinuncia, saggezza')
scritto in 4 tipizzazioni: lentsa (il tipo "sacro"), uchen
(l'usuale a stampa), drutsa (stile decorativo) ed ume (usuale corsiva).
Adattato da John Stevens,
Asian Calligraphy, in The World’s Writing Systems, edited by Peter T.
Daniels and William Bright, New York - Oxford, Oxford University Press, 1996, Section 20,
pp. 244-251, p. 247.
Non mancano anche altre lingue letterarie minori, di varia antichità
e documentazione, quasi tutte scritte con sistemi derivati dalla brahmi, e perlopiù
di posizione incerta nell'organizzazione filogenetica della famiglia. Ne ricorderò almeno
un paio.
+ Il newari (noto anche come nepal bhasa),
la vecchia lingua ufficiale del Nepal, ha «a highly Sanscritized literature that
goes back many centuries» ed è una delle lingue più influenzate dall'indoario
(Matisoff 2000 cit., p. 351). Parlata da circa un milione di persone in Nepal (e qualche
migliaia in India e Sikkim), principalmente nella valle di Kathmandu, è assai antica:
il primo documento datato è la cosiddetta "foglia di palma di Uku Bahal" che risale al 1114 dC.
Nel corso della sua lunga storia il newari è stato scritto con varie scritture: oggi è ufficiale
in Nepal la medesina nagari
usata per la hindi, ma precedentemente era usata soprattutto la rañjanaa, una
propria variazione, molto simile alla nagari, della
brahmi, che oggi sta avendo
un discreto revival.
+ Il lepcha o róng ha c. 50.000 parlanti nel
Sikkim, ed ha una propria modesta tradizione scritta, con una scrittura (kakhó-re)
derivata dalla corsiva tibetana u-met (e quindi, in ultima analisi dalla
brahmi che si vuole inventata
dal re Cha-dor P'yag-rdor-rnam-rgyal (correntemente Phyagdor Namgyal, nato nel 1686).
Inizialmente usata verticalmente (segno di influsso cinese), fu presto trasposta
orizzontalmente; ha la peculiarità, insolita in un alfasillabario, che oltre alle vocali
anche le consonanti finali di sillaba sono scritte con diacritici (ma vedi sopra
la pratica del tibetano): cfr. van der Kuijp 1996
cit. pp. 436-437 e George Byres Mainwaring, Dictionary of the Lepcha-language,
revised and completed by Albert Grünwedel, Berlin, Unger Brothers, 1898 (l'introduzione
raccoglie preziose informazioni tradizionali). Potete vederla
alla seguente pagina di Omniglot.
+ La lingua (sembra) tibetobirmana più antica è comunque il
pai-lang, di cui ci restano brevi testi riportati nella cronaca cinese degli
Han posteriori (Hòu hàn shi3, III sec. d.C.), di impervia interpretazione (cfr. Christopher
I. Beckwith, The Pai-lang Songs: The Earliest Texts in a Tibeto-Burman Language and their
Late Old Chinese Transcriptions, in «Medieval Tibeto-Burman Languages» III (2008)
edited by Christopher Beckwith = Proceedings of the 11th Seminar of the International
Association for Tibetan Studies, Halle, International Institute for Tibetan and Buddhist
Studies GmbH, pp. 87-110). Si riveda inoltre quanto avevamo già detto a proposito della
scrittura
cinese e delle interazioni con le popolazioni
altaiche e non-han in genere.
È la famiglia di più recente "scoperta" all'interno del TB: si
tratta, infatti, di una dozzina di lingue del Sichuan e dello Yunnan, più o meno
sconosciute, e venute alla ribalta alla fine degli anni Ottanta. Fonologicamente
complesse e molto sfrangiate dialettalmente, conservano in genere bene il consonatismo
iniziale (come il tibetano classico) e sono solo in parte tonali (cfr. Matisoff 2000 cit.,
p. 350).
Tra le lingue quiang ne ricorderemo almeno tre.
+Il qiang (noto anche alla Wade-Giles come
ch’iang), lingua eponima del gruppo, è ancora parlato (ma è a forte rischio estinzione)
nel Sichuan NC in due varietà, settentrionale (c. 57.000 parlanti) e meridionale
(c. 81.000 parlanti), entrambe dialettalmente complesse. Tra le sue molte caratteristiche
interessanti, è il fatto che il quiang settentrionale non è tonale, mentre il meridionale
ha 6 toni, dimostrando così la natura molto recente della tonogenesi nel gruppo.
Notevole è anche, a fianco del ricco consonantismo di inizio sillaba con possibilità di
clusters relativamente complessi come in tibetano, lo sviluppo di un consonantismo
di fine sillaba insolitamente abbondante (tramite, di solito, la fusione di vecchi composti).
+ Il rgyalrong (od alla cinese anziché alla tibetana
jiarong, variante preferita dall'Éthnologue)
parlato in almeno 3 dialetti non intercomprensibili da c. 83.000 persone sempre
nel Sichuan NC, ma per fortuna non in immediato
pericolo di estinzione, ha un consonantismo ancora più ricco ed è solo moderatamente tonale.
+ Il tanguto, una storica lingua antica
estinta dopo la conquista mongola del Tibet nel secolo XIII, sulla cui collocazione si è a
lungo esitato (era anche stata considerata parte del gruppo birmano - lolo, forse
un antecedente del sottogruppo moderno delle lingue hsi-fan), è stato ormai
dimostrato appartenere al nuovo raggruppamento qiang. Il tanguto fu la lingua
dell'impero (880c d.C. - 1038 d.C.) Xi1xià
(cioè, in cinese, degli 'xià occidentali'; o hsi-hsia, come è reso nella
trascrizione Wade-Giles, più spesso impiegata in tibetobirmanistica e tra gli storici).
Come avevamo già avuto occasione di accennare (cfr. § 2.4.3)
questo regno affonda le sue origini
nell'epoca Táng, quando assunse il titolo dinastico cinese Li3; se il consolidamento
statuale può dirsi compiuto verso la fine del X secolo (990), la proclamazione dell'impero
Dàxià (cioè, in cinese, del 'grande xià') avvenne nella seconda metà del X
secolo (1038). Dopo circa tre secoli di orgogliosa indipendenza fu definitivamente
assoggettato dai mongoli di C^inggis Qagan) tra il 1224 ed il 1227. Il peggio avvenne
tuttavia poco dopo la morte del grande qagan: il territorio xià fu completamente
devastato ed i tanguti furono in gran parte sterminati; addirittura, secondo le fonti cinesi,
non sarebbe scampato più di un centesimo della popolazione. Scritto in un originale
e problematico sistema di logogrammi siniformi (cioè di nuovi segni costruiti come
i logogrammi cinesi e funzionanti nel medesimo modo), con un segnario di c. 6.600 caratteri,
il tanguto ci è noto da molti manoscritti, tra cui un dizionario bilingue cinese-tanguto
del XII secolo (il Xiàngxíng cioè 'Oceano di caratteri'), che ne hanno resa possibile
la decifrazione, anche se la reinterpretazione fonologica è ancora molto precaria e
discussa (cfr. E. I. Kychanov, Siniform Scripts of Inner Asia. Tangut, in The World’s
Writing Systems, edited by Peter T. Daniels and William Bright, New York - Oxford,
Oxford University Press, 1996, Section 18.1, pp. 228-230).
A questo gruppo, per cui manteniamo l'etichetta tradizionale di
kachin (anziché il nome specifico della lingua, cfr. infra), attestato
tra Birmania N e le confinanti zone di India e Cina, fa capo sostanzialmente una sola lingua, cui
si uniscono verosimilmente solo un paio di altri sistemi dialettali (nungico e
luico, anche se sono stati fatti tentativi di strappare barico ("bodo-garo")
e naga al calderone del kamarupa per affiliarveli geneaòlogicamente. Dato che condivide
elementi con quasi tutti gli altri gruppi tibetobirmani, era stato considerato da Benedict
la varietà centrale del TB anche geneticamente oltre che geograficamente.
Il jingpho, ché questo è il nome corretto della lingua,
mentre «‘Kachin’ refers to the cultural rather than the linguistic group»
(Éthnologue), è
una importante lingua parlata da 900.000 persone nello stato Kachin del Myanmar e 40.000
nello Yunnan W in Cina e che gode (per fortuna!) di ottimo stato di salute (dati da
Éthnologue): in Birmania
è usato come lingua franca e parlato come L2 dai non-kachin in tutta la regione; in Cina
(dove è classificata come "nazionalità Jingpo ") è usata anche per l'istruzione.
Ne esiste anche uno standard scritto, in latica e basato sul pinyin.
Linguisticamente è notevole per la conservazione del consonatismo finale e dei
gruppi consonantici iniziali di sillaba, ma «most strilingly it contains a high percentage
of sesquisyllabic' words, which preserve in their 'minor syllables' many of the prefix
set up for PTB» (Matisoff 2000 cit., p. 349).
Abbastanza compatto (36 lingue per l'Éthnologue questo probabilmente il gruppo meglio studiato all'interno del TB, soprattutto dal punto di vista storico-comparativo, infatti la protolingua (PLB) è ormai ben ricostruita. Comprende, di norma, lingue fortemente tonali, con scarso consonantismo iniziale e spesso nessun consonantismo finale (cioè vi sono solo sillabe aperte). Cfr. Matisoff 2000 cit., p. 349. Ne considereremo almeno tre lingue.
+ Il birmano
(autodenominazione myanma bhasa),
con i suoi più di 32 milioni di parlati (quasi tutti in Birmania, Myanmar),
è la lingua TB birmana più parlata, e nel ST è seconda solo al cinese.
Otre che demograficamente, è notevole anche per antichità e prestigio letterario,
essendo documentato da mille anni (la prima attestazione è del 1058), con una distinte
una fase di antico birmano (XI-XVI secolo), una di medio birmano (XVI-XVIII
secolo) ed una di birmano moderno (sec. XVIII ex. - oggi).
Anche il birmano è scritto in un alfasillabario derivato dalla brahmi
(per la diffusione della brahmi nel Sudest asiatico cfr. il paragrafo sulla
brahmi nel capitolo sulle scritture),
ma di elaborazione non autonoma, avendo preso in prestito in epoca antica quello
elaborato dal mon (cui
rimando; cfr. anche Julian K. Wheatley, Burmese Writing, in The World’s
Writing Systems, edited by Peter T. Daniels and William Bright, New York - Oxford,
Oxford University Press, 1996, Section 42, pp. 450-456) una lingua
mon-khmer che in territorio poi assorbito dai birmani aveva costituito un importante
impero.
+ Il naxi (in cinese contemporaneo
nàxi1yu3); l'altro nome in uso di moso corrisponde in realtà ad un
gruppo linguisticamente analogo ma culturalmente distinto) è la lingua di c. 309.000
persone prevalentemente nello Yunnan NW ed in piccola parte nel Sichuan SE in due dialetti
di cui l'occidentale (parlato nel distretto autonomo maxi di Lijiang, Lijiang
naxizu zi zhi zian) rappresenta lo standard. Oggi il naxi è scritto perlopiù
con una ortografia latinica ispirata al pinyin e sviluppata negli anni Cinquanta
(le quattro serie di occlusive del naxi, sorde, aspirate, sonore e prenasalizzate
sono rappresentate - esemplificando con l'ordine labiale - b, p,
bb e nd, e l'ordine retroflesso è reso rispettivamente con z,
ch, rh e nr). È tutt'ora in limitato uso (ristretto alla
vecchia pratica sciamanica, ed ormai illeggibile per i più) una famosa quasi-scrittura
pittografica caratteristica dei naxi (se ricordate quanto dicevamo per la
tipogia delle scritture,
si tratta di una forma intermedia tra una puramente
semasiografica, come
ancora prevalentemente è, ed una
logografica non morfemica);
è chiamata dongba dal nome stesso degli sciamani, ed in essa sono tramandati
molti libri sacri, di cui alcuni esemplari sono ormai anche in Occidente.
[tav. 9].
Un esempio di quasi-scrittura naxi,
la dongba, da un libro relativo all'origine del k'a3kwo2kwo1, una sorta di
scacciapensieri a tre lamine di bambù, legato ai rituali dei suicidi d'amore. La divisione
in riquadri è del manoscritto; di ognuno sono forniti trascrizione, traduzione e
commento di Joseph Francis Charles Rock (1884 – 1962), l'esploratore e botanico cui
principalmente dobbiamo la "scoperta" dei naxi: da Joseph F. Ch. Rock, The Romance
of K'a-mä-gyu-mi-gkyi, in "Bulletin de l'Ecole française d'Extrême-Orient» XXXIX
(1939) 1-152, pp. 9-10. Si notino il carattere quarto nella prima vignetta e sesto
nella terza col valore di negazione, e l'uso dell'ultimo carattere della terza vignetta
come prestito fonetico (cfr. il commento di Rock riprodotto), ulteriormente allargato
nel valore che il segno ha alla fine della prima vignetta: caratteristiche entrambe
che depongono per un uso già "linguistico" e non puramente semasiografico (riguardate
i winter counts degli
Sioux nel § 1.6.3) del sistema grafico: donde l'etichetta preferibile di quasi-scrittura
per la dongba dei naxi.
Il sistema fonologico del naxi, pur non avendo più traccia del
consonantismo finale (ha solo sillabe aperte) è assai ricco, con 56~61 fonemi
= 43~48 consonanti (occlusive in sei ordini, labiale, dentale, solcato, retroflesso,
alveopalatale e velare, per quattro serie; 5 ordini di ficative per quattro serie,
sorde e sonore; 4 nasali; la presenza anche di palatali e vibranti è discussa) + 9
vocali + 4 toni (rappresentati con consonanti postvocaliche, potendo altrimenti
le sillabe uscire solo in vocale: -l 'high-level', -Ø 'mid-level',
-q 'low-level/falling' e -f 'low-rising').
+ Lo yi o lolo (termine usuale in
Occidente, ma che è considerato dagli yi come peggiorativo), infine, è parlato da
c. 6 milioni di persone (cfr. Matisoff 2000 cit., p. 349) prevalentemente nello Yunnan.
Articolato in numerose varietà non intercorprensibili (da quattro a sei; un ulteriore
paio di "lingue" che paiono correlate si trova nel Vietnam N), è riconosciuto
in Cina come "nazionalità". La varietà adottata come standard è il yi N o nuosu,
parlato come L1 da circa 2 milioni di yi, usato anche nell'istruzione ed attualmente in
crescita. Lo yi ha attestazioni di considerevole antichità in una scrittura peculiare,
la cosiddetta yi classica, la cui prima testimonianza datata è un'iscrizione
su una campana di bronzo del 1485, ma che si vorrebbe risalente ad epoca Tang.
Si tratta di una scrittura sinomorfica, ossia in cui i segni sono logogrammi che funzionano come
in cinese (che ne è stato evidentemente uil modello), ma che hanno una forma diversa, come già
abbiamo visto per la scrittura del tanguto.
Originariamente concepita in c. 1.840 segni, è presto esplosa in innumerevoli varianti locali
(attestate in epigrafi e manoscritti) tanto da raggiungere (pare) i 90.000 caratteri.
Alcune di tali epigrafi (specie le più brevi; pure i manoscritti sono numerosissimi,
alcuni anche recentemente pubblicati) sono, di conseguenza, scarsamente comprensibili;
dificoltà che avrebbe portato nel 1974 ad una riforma "ufficiale" del governo cinese
che introdusse la cosiddetta scrittura yi moderna, che è un sillabario
derivato dai logogrammi della precedente (un po' come storicamente i kana del giapponese
rispetto ai kanji). Dato che la lingua è fondamentalmente monosillabica (a struttura CV)
e con ricco sistema fonologico (56 consonanti + 10 vocali + 3 toni), il sistema si trova
comunque a dover rappresentare le 1.164 combinazioni esistenti (che non sono tutte le
possibili, ma rappresentano le sillabe esistenti): la scrittura yi noderna,
quindi, sia pure sillabica, a primo colpo d'occhio non è molto diversa da un sistema
logografico, sia pure motivato più fonologicamente che semanticamente.
[tav. 10ab].
Le due scritture yi.
In tav. (a) una delle prime epigrafi in yi classica pubblicate in occidente.
Di difficile decifrazione (come spesso accade), è tratta da S. Charria, Les
inscriptions lolo de Lou-k'iuan, in «Bulletin de l'Ecole française d'Extrême-Orient»
V (1905) 195-197. In tav. (b) una frasetta in yi moderna tratta da Dingxu Shi,
The Yi Script, in The World’s
Writing Systems, edited by Peter T. Daniels and William Bright, New York - Oxford,
Oxford University Press, 1996, Section 19, pp. 239-243, p. 242.
L'altro, più grande, ramo del sinotibetano è costituito, come si diceva,
sostanzialmente da una sola "lingua" di vastissima diffusione, prestigio culturale e letterario: il
cinese o han, propriamente han4yu3, cioè (in caratteri rispettivamente semplificati
e tradizionali ). In realtà, non si tratta propriamente
di una "lingua" sola, anche se considerazioni culturali e tradizionali portano a
mettere in rilievo gli aspetti "unitari": i cosidetti "dialetti" del cinese, infatti,
anche se sono percepiti come tali dai cinesi medesimi, sono vere e proprie lingue
autonome (non sono spesso mutuamente intercomprensibili senza la mediazione della
scrittura; qualcuno, ad es. il cantonese, ha sviluppato anche una propria forma
"standard", anche a livello scritto). Come tali ad esempio li "conta" il solito Éthnologue:
[tav. 11].
Le "lingue siniche" per
Éthnologue:
il "conto" di 14 è questa volta, contrariamente al solito, ancora abbastanza cauto,
in realtà le varietà tra loro mutualmente incomprensibili sono anche più.
Tradizionalmente, il sistema dei "dialetti" cinesi
(yu3 o fang1yán ) è di solito considerato articolato in sette unità:
il (1) mandarino (cinese guan1huà) o
settentrionale (bei3fang1) con c. 850 milioni di parlanti,
articolato in vari dialetti, tutte emanazioni del dialetto di Pechino, trapiantato
in regioni variamente ripopolate; è la forma su cui si basa il moderno cinese standard
della Repubblica Popolare Cinese, la pu3tong1huà;
il (2) wu (wú) con c. 80 milioni di parlanti; oltre che
la varietà quantitativamente maggiore dopo il mandarino (comprende il dialetto di Shanghai,
in cosiddetto shanghainese) è, tra l'altro, quella parlata dalla maggior parte
dei cinesi emigrati in Italia;
il (3) min (min3), con c. 50 milioni di parlanti è la varietà
più diversificata al suo interno (molti dialetti min3 non sono intercomprensibili);
comprende anche il cinese di Taiwan (noto anche come taiwanese hokkien o
hoklo, propriamente ho1lo2) e quello parlato in Singapore
ed in Malesia (generalmente noto come hokkien);
il (4) kejia o hakka (cinese kèjia1) con c. 35 milioni di parlanti;
è importante soprattutto per lo studio della tonogenesi del cinese moderno, in quanto
da un lato conserva le consonanti finali del cinese medio, e dall'altro ne riflette
esattamente nei toni le iniziali;
lo (5) yue (yuè) con c. 70 milioni di parlanti; comprende
anche le varietà di Canton (il cantonese proprio, con tradizione anche scritta
e vasta latitudine d'uso) Hong Kong e Macao;
lo (6) xiang (xiang1) con c. 35 milioni di parlanti; noto
anche come hunannese in quanto le sue varietà sono diffuse soprattutto nello
Hunan, è particolarmente importante per la ricostruzione del consonantismo mediocinese,
in quanto (mantenendo le sonore) ne conserva la articolazione in tre serie delle occlusive;
ed il (7) gan (gàn) con c. 31 milioni di parlanti;
il hui1zhou1 ne è di solito considerato una variante.
Queste sette "unità" sono tradizionalmente raggruppate, geograficamente ancor più
che linguisticamente, in tre gruppi: uno settentrionale con il solo mandarino,
uno meridionale con min, yue e hakka, ed uno centrale di transizione con le altre
varietà; schematicamente:
[tav. 12ab]
Il sistema tradizionale delle lingue / dialetti cinesi: (a) elenco delle 7 usualmente riconosciute
varietà (da William H. Baxter, A Handbook of Old Cjinese Phonology, Berlin - New York,
Mouton de Gruyter, 1992 " Trends in Linguistics - Studies and Monographs" 64, p. 9);
loro mappa geografica, con sottodistinto un elemento (hui1zhou1) di solito compreso
nel gàn (basato su Jerry Norman, Chinese, Cambridge - New York - New Rochelle -
Melbourne - Sydney, Cambridge University Press, 1988, p. 184.
Uno schema correttamente filogenetico delle lingue/dialetti sinici, che tenga conto anche delle principali varietà antiche che ci sono note, avrebbe invece la forma seguente, in cui si noti la relativa indipendenza del gruppo dialetti Min:
[tav. 13]
L'albero filogenetico del sinico. Da Roger Blench, Stratification in the Peopling of China. How Far does
the Linguistic Evidence Match Genetics and Archaeology?, in Past Human Migrations
in East Asia. Matching Archaeology, Linguistics and Genetics, edited by Alicia
Sanchez-Mazas, Roger Blench, Malcom D. Ross, Ilia Peiros and Marie Lin, London -
New York, Routledge, 2008 "Routledge Studies in the Early History of Asia" 5, pp. 105-132, p. 109.
Sulla storia del cinese, e sulla natura delle sue attestazioni antiche,
abbiamo già sostato più volte, in particolare a proposito della
scrittura, vera bandiera di identità
di tutto il mondo sinico: e tenete presente soprattutto, nel paragrafo sulla scrittura, la
tavola dinastica generale, oltre
al paragrafo riassuntivo
sulle interazioni sino-altaiche, con la
tavola cronologica sinottica.
Non vi spenderò quindi ulteriori parole.
Mi limiterò invece a pochi cenni al problema della ricostruzione dell'antico cinese:
data, infatti la particolare natura delle attestazioni della lingua (in scrittura
sempre logografica) non possiamo applicare direttamente il metodo storico-comparativo
se prima non abbiamo ricostruito, con apposite metodologie, la natura fonetica dell'antico
cinese stesso, che non possiamo "leggere" direttamente dai logogrammi.
Ho parlato genericamente di "antico cinese", ma c'è stata in realtà
abbastanza confusione sulla periodizzazione del cinese. Un utile confronto tra lo schema,
oggi scartato, del primo e benemerito, anche se oggi superato, "ricostruttore",
il danese Bernhard Karlgren (1889-1978, il vero pater della sinologia storica moderna, ed il
fondatore della ricostruzione: i suoi Grammata Serica Recensa del 1954 costituiscono
una vera pietra miliare) che in particolare chiamava "cinese antico" il "cinese
medio"), e quello, più moderno, di Pulleybank si trova nella pagina su Periodization
of Chinese Phonology
di Marjorie K.M. Chan.
La "ricostruzione", in realtà, parte dal cinese medio (epoca Sui e Tang), per il quale
esistono pezze di appoggio dirette, mentre per il cinese antico (con tutta la letteratura
classica dall'epoca del Chun1qiu1 al Nánbéicháo) si può solo inferire secondariamente.
La ricostruzione, infatti, si basa, oltre che (come nel metodo comparativo standard)
sui dialetti moderni e sulle tradizioni "sinoxeniche" (come il sinovietnamita, il sinokoreano, il
sinogiapponese, ossia le componenti cinesi entrate in vietnamita, koreano e giapponese, che
rispecchiano condizioni in genere più arcaiche del cinese moderno) su un dizionario
fondamentale, il Qièyùn, compilato da Lù Fa3yán nel 601 d.C. all'inizio della
dinastia Sui, oggi perduto ma che possediamo nella revisione d'epoca Tang di Wáng
Rénxu1 (Kan1miù bu3qe1 qièyùn, scoperta solo dopo la seconda guerra mondiale)
ed in una di epoca Song, lo Guang3yùn di Chén Péngnián, più altre redazioni
pervenuteci incomplete (mi baso su Norman 1988, cit., pp. 24-27; cfr. anche una
tavola più completa
di Marjorie Chan).
Quello che rende il Quèyùn fondamentale è che Lù Fa3yán registra anche
la pronuncia delle parole, con un sistema che avrà enorme fortuna, il fan3qiè,
in cui di ogni carattere si rappresenta l'iniziale con un altro carattere omofono
nella sola iniziale e la finale con un altro carattere omofono soltanto per la rima:
«if - per usare direttamente le parole di Norman 1988 cit., p. 27 - one wished to indicate
the pronunciation of a character pronounced mâk, two other characters, one
beginning wit m- and the other ending in -âk, could be used: mâk
= m(iei) + (k)âk». Strutturalmente, poi, il dizionario era costruito nel modo
seguente: una volta divise le parole per toni, ogni tono
era diviso in un certo numero di rime (juàn), chiamate in base al primo carattere
di ogni lista (l'entrata, cioè la yùnmù "rima occhio"); ogni rima conteneva
i gruppi di caratteri tra loro omofoni (cioè con anche la stessa iniziale oltre che
la stessa rima), ognuno preceduto da un niu3 'bottone'; il primo carattere
di ogni gruppo omofonico era poi dotato della sua formula di fan3qiè.
Oltre che sul Quèyùn, poi, la ricostruzione del medio cinese può usare
anche "le tavole delle rime" (deng3yùntú) di epoca Song, che sistematizzano
le strutture del Quèyùn in base alle nuove teorie fonologiche importate, col buddhismo,
dall'India.
Non è qui il luogo di spiegare tutte le difficoltà che l'uso di questi materiali comporta ed ha comportato (per cui rimando semmai alla più recente sintesi: Axel Schuessler, Minimal Old Chinese and Later Han Chinese. A Companion to "Grammata Serica Recensa", Honolulu, University of Hawai'i Press, 2009 "ABC Chinese Dictionary Series"). È già sufficiente se almeno siamo arrivati a comprendere come, incrociando i dati dei fan3qiè con i dialetti cinesi moderni e sinoxenici, si sia potuti arrivare a dare una sostanza relativamente affidabile al medio cinese (e molta parte del merito, nonostante tutto quel che vi è stato da criticare e migliorare, spetta a Karlgren), e come questo costituisca anche un complemento teorico importante al metodo storico comparativo sviluppato in Occidente.
Quanto al cinese antico, il problema era ancora più spinoso, vista la assenza di appigli diretti come il Quèyùn. Data l'importanza della letteratura coinvolta da questa incertezza, non è strano che la riflessione sia stata avviata abbastanza presto nella tradizione filologica cinese. Le prime indagini risalgono infatti a Chén Dì (1541-1617), che si accorse come gli schemi delle rime della classica raccolta Shi1jing1 (edita nel VI a.C., ma contenente componimenti di epoche diverse, risalenti fino al I a.C.) osservassero uno schema coerente ma differente da quello del quello del Quèyùn. Oltre alle rime, sarà poi il filologo Duàn Yùcái (1735-1815) a rendersi conto delle potenzialità (in tutto paragonabili al sistema del fan3qiè) offerte dall'analisi dei caratteri composti (che sono più dell'80%) dello Shuo1wén jie3zì di epoca Hàn orientale (100 d.C.: ne avevamo già parlato - andate a ricontrollare - a proposito della scrittura). Una vera svolta si avrà però solo con Karlgren, che confronterà queste osservazioni strutturali con la ricostruzione del medio cinese. I risultati di Karlgren hanno come sempre sbloccato la ricerca, anche se sono ora stati superati prima dalla ricostruzione di Fang-kuei Li 1976 (cfr. Fang-kuei Li, Ji3ge shànggu3 sheng1mu3 wèntí, in Zong3tong3 Jiang3 Gong1 shìshì zhou1nián lùnwénji1 edited by Qián Si1liàng et alii, Taipei, Academia Sinica, 1976: è la ricostruzione cui riferisce ad esempio ancora Norman 1988 cit.), e poi da quella di Baxter (cfr. William H. Baxter, A Handbook of Old Chinese Phonology, Berlin - New York, Mouton De Gruyter, 1992 "Trend in Linguistics. Studies and Monographs" 64), attualmente standard e su cui si basa anche Schuessler 2009 cit.
Il cinese, a livello macroscopico, è diversissimo dalle lingue
tibetobirmane (ad es. è prevalentemente VO, come il karen, e non OV, come il
tibetobirmano; ha radici monosillabiche, ecc.). Anche la presenza
del tono, tipico delle lingue cinesi odierne come della maggior parte delle tibetobirmane
e di tutte le karen, comunque, è una convergenza illusoria, in quanto non sembra
possa ricostruirsi un sistema tonemico comune in proto-sinotibetano (è stato
pure proposto, senza molto successo, un sistema a due toni), ed i sistemi dei tre
rami principali (tibetobirmano, karen e sinitico)
sembrano tutti creazioni indipendenti l'una dall'altra (i quattro
toni del cinese standard
possono essere ascoltati dalla pagina del fonetista Peter Ladefoged, e così anche i
sei toni del cantonese).
Pochi dei prefissi postulabili per il proto-tibetobirmano sembrano inoltre ravvisabili
in cinese antico, che comunque aveva un sistema di iniziali (e di finali) molto
più ricco dell'odierno.
Giusto per dare l'idea di queste ricostruzioni, fornendo anche uno spezzone del
sistema morfologico della lingua, riporto le ricostruzioni medio ed antico cinesi
del sistema delle preposizioni (ricordando che sono tutte, propriamente dei verbi,
ossia sono lessemi che fungono da verbi o preposizioni a seconda della loro posizione
sintattica nella frase):
[tav. 14]
Le preposizioni in cinese medio ed antico secondo le ricostruzioni di Fang-kuei Li.
Adattato da Jerry Norman, Chinese, Cambridge - New York - New Rochelle -
Melbourne - Sydney, Cambridge University Press, 1988, p. 93.
Se il territorio dove è diffuso il cinese sembra
compatto, è tuttavia importante ricordarsi che si sovrappone ad un fitto numero di
popolazioni "non-han", che conservano spesso tuttora la loro lingua: nel Nord è il
caso di popolazioni mongole e tunguse, nell'Ovest turche, tibetane e mongole, nel
Sud tibetobirmane, daiche e myao-yao, ed all'interno di Taiwan austronesiane. Ufficialmente,
in Cina sono riconosciute 56 lingue minoritarie, ma la realtà è molto più frastagliata
dell'ufficialità. Tra queste, oltre a lingue tibetobirmane non-sinitiche, ve ne sono
ancora alcune (remnant languages) la cui posizione non è chiara e che potrebbero
portare ad un notevole avanzamento nella organizzazione inyterna della famiglia.
Tra queste, il minchia (o bai), è un esempio paradigmatico, e sarà trattato nel
paragrafo seguente. Ma come questo ve ne sono altre ancora oscure.
+ Ricorderemo, ad esempio, il tujia, parlato in Hunan, Hubei e Guizhou in due
varianti da c. 70.000 (la forma N) e 1.500 (la forma S) persone,
per cui esiste un sito
di riferimento; la sua posizione è tuttora sconosciuta. Non così la sua storia, in quanto
«the Tujia are likely to be the modern descendants of the Ba people, whose kingdom
(near modern day Chongqing) flourished between 600 an 400 bC, but fell to the Qin
in 316 bC. The Ba appear in historical records as the Tujia from about aD 1300
onwards» (Roger Blench, Stratification in the Peopling of China. How Far does
the Linguistic Evidence Match Genetics and Archaeology?, in Past Human Migrations
in East Asia. Matching Archaeology, Linguistics and Genetics, edited by Alicia
Sanchez-Mazas, Roger Blench, Malcom D. Ross, Ilia Peiros and Marie Lin, London -
New York, Routledge, 2008 "Routledge Studies in the Early History of Asia" 5, pp.
105-132, p. 109).
+ Un'altra lingua problematica è il waxiang(hua), parlata da c. 6000 persone nei
monti Wuling dello Hunan W: «it differs greatly from both South-western Mandarin
(Xinan Guanhua) and Xiang Chinese (Hunanese), but is relatively uniform within itself.
It has so far remained unclassified» (Blench 2008 cit. p. 110).
+ Infine mezioneremo ancora il wutun(hua), con c. 2000 parlanti nella provicia
del Qinghai E, che l'Éthnologue
considera una "lingua mista" con elementi di cinese, tibetano (bonan) e mongolo
(monguor), anche se «its ultimate genetic affiliation remains unknown» (Blench 2008 cit. p. 110).
Così lo descrive l'Éthnologue cit.: «Classified as Tu and Han nationalities. Reportedly
a variety of Chinese heavily influenced by Tibetan or perhaps a Tibetan language
undergoing relexification with Chinese forms. Also described as Chinese which
converged to an agglutinative language, using only Chinese material, towards Tibetan-Mongolian.
Neighboring Tibetans refer to the Wutun people as ‘Sanggaixiong’, meaning ‘center
of the lion’. Known for their paintings of Buddha. SOV; adjectives follow nouns;
adverbials precede predicate; case and number marked on nouns; prenasalized consonants;
11 different syllable-final consonants; tone and stress have low functional load;
most words polysyllabic».
Una delle "lingue minori" del Sud (Yunnan), il minchia
(giuro che è vero!) o "bai" (dal cinese bai2yu4, che è il nome ufficiale in Cina)
gode ormai di una riconosciuta automia all'interno del sinotibetano, anche se la sua
precisa posizione è tutt'ora discussa. Ci sono state, infatti, numerose discussioni
se debba considerarsi una lingua daica fortemente sinizzata, una lingua tibetobirmana
fortemente sinizzata, o piuttosto un'altra lingua sinitica fortemente daicizzata prima e
sinizzata poi, sorella del così non più isolato cinese (secondo una proposta recente di
Starostin del 1994: cfr. Sergei A. Starostin, The Historical Position of Bai, in
"The Moscow Linguistic Journal" I (1995) 174-190; poi in S. A. Starostin, Trudy
po jazykoznaniju, Moscow, Languages of Slavic Cultures, 2007, pp. 580-590),
come pare più probabile, anche se i forti e ripetuti influssi del
cinese (a partire dal cinese antico) ne hanno in parte oscurato la posizione: per tutta
la questione cfr. Wang Feng, On the Genetic Position of the Bai Language,
in "Cahiers de Linguistique - Asie Oriental" XXXIV (2005) 101-27.
Inoltre il minchia ha una considerevole differenziazione dialettale, tanto che
l'Éthnologue
lo considera in realtà un gruppo di tre lingue diverse (settentrionale o bijang, centrale
o minchia proprio, e meridionale).
[tav. 15]
La Prefettura Autonoma di Dali Bai nello Yunnan (adattato da Bryan Allen, Bai
Dialect Survey, [Dallas], SIL International, 2007 "SIL Electronic Survey Report"
2007-012, p. 4). I bai costituiscono la 14a minoranza etnica della Cina ed il censo del 2000 ne annoverava
1.858.063, di cui il 74% è concentrata nella prefettura autonoma di Dali Bai nello Yunnan;
i parlanti sono probabilmente poco sopra il migliaio. La migliore fonte sociolinguistica
e dialettologica è oggi Allen 2007 cit., che ha anche una ricchissima bibliografia,
cinese e non.
Il minchia, oltre che per nome e classificazione, è abnorme
anche per la fonetica, associando agli otto toni (normali in tibetobirmano) almeno due
registri (come nelle
lingue mon-khmer, dove
la nozione è spiegata), teso (con vocali cricchiate) e lasso (con vocali normalmente sonore),
producendo con nasalizzazione ed aspirazione un sistema fonologico teorico semplicemente
allucinante; non tutte le combinazioni, però sono per fortuna realizzate e pare che si arrivi
a creare solo "15-tuple" (alla faccia delle solite "coppie"!) minime:
[tav. 16]
Le 15-tuple minime realizzate in minchia (bái), da Jerold A. Edmondson - Lama Ziwo -
John H. Hesling - Jimmy G. Harris - Li Shaoni, The Aryepiglottic Folds and Voice
Quality in Yi and Bai, in "Mon-Khmer Studies" XXXI (2001) 83-100.